Le responsabilità di una campionessa

Una partita memorabile non solo per il successo della Osaka ma, purtroppo, anche per un episodio spiacevole accaduto

di Vittorio Arata

Alcuni giorni fa si è svolta la finale della 50^ edizione degli Us Open femminili. Le contendenti al titolo erano Serena Williams (USA), già vincitrice di sei precedenti edizioni del torneo, e la giovanissima Naomi Osaka che, appena ventenne, è stata la prima giocatrice giapponese ad arrivare in finale ad un torneo valido per il Grande Slam.

Una partita memorabile non solo per il successo della Osaka ma, purtroppo, anche per un episodio spiacevole accaduto all’avversaria Serena Williams, che nel primo set riceve, secondo alcuni ingiustamente, un warning per coaching (ovvero un’ammonizione per aver violato la regola che vieta all’allenatore di comunicare dagli spalti con il giocatore nel corso di una partita), provvedimento che, secondo la giocatrice interessata, era immotivato e quindi considerato offensivo della propria dignità di giocatrice competitiva ma corretta. Quando il warning viene assegnato due volte, anche per motivi diversi tra loro, viene comminata una penalità al giocatore coinvolto.

Dopo il warning, Serena si è confrontata con l’arbitro Carlos Ramos spiegando di non aver commesso alcun tipo di infrazione, e dando per scontato che quindi il warning le venisse tolto. Ha però realizzato che così non era quando, dopo aver ricevuto un secondo warning per aver distrutto la racchetta scagliandola nervosamente a terra, ha notato sul tabellone l’assegnazione d’ufficio di 15 punti di penalità, dovuti per l’appunto alla somma delle due ammonizioni. A quel punto Serena ha aggredito verbalmente l’arbitro chiamandolo thief (ladro), e dicendo che lei piuttosto di barare avrebbe preferito perdere, pretendendo pertanto che Ramos rimuovesse il primo warning facendo delle scuse al microfono davanti a tutti; l’arbitro, invece, ha annunciato un game di penalità alla Williams per averlo chiamato ladro. Questa decisione ha portato il punteggio del secondo set a 5-3 a favore dell’Osaka, per cui la giocatrice americana, avendo già perso il primo set, si è trovata di colpo ad un passo dalla sconfitta. In preda ad una crisi di nervi, ha quindi chiamato i supervisori arbitrali in campo, affermando che molti giocatori del circuito maschile dicono cose ben peggiori senza essere toccati, accusando pertanto l’arbitro di sessismo nei suoi confronti.
La partita è poi continuata e ha visto affermarsi la Osaka come campionessa.

Il giorno seguente alla Williams è stata comminata una multa da 17.000 dollari, di cui 3.000 per aver rotto la racchetta, 4.000 per il presunto episodio di coaching e 10.000 per abuso verbale nei confronti dell’arbitro.

Questo episodio, al di là della cronaca sportiva, fa riflettere sull’importanza del rispetto delle regole, nello sport e più in generale nella vita. Per questo, il pubblico si è diviso tra sostenitori e accusatori della campionessa che fino ad oggi si è sempre distinta per determinazione, tenacia ma anche fair play. È plausibile, per esempio, la sua accusa di aver ricevuto un trattamento diverso rispetto a quello che si sarebbe riservato ad un tennista maschio? Non è facile giudicare in questo senso, non conoscendo approfonditamente i dati in merito. Questo episodio così particolare richiama alla mente un grande tennista del passato, John McEnroe, rimasto nella storia non solo per le sue abilità tennistiche ma anche per le sue intemperanze, che gli sono costate, all’Australian Open del 1990, addirittura la squalifica.

La Williams si è particolarmente risentita per essere stata accusata di aver barato, in quanto la sua reputazione è di giocatrice che mette tutta se stessa nel tennis dando sicuramente il meglio, ma sempre nel rispetto dell’avversario. Il suo sentirsi offesa in maniera personale può dunque aver contribuito alla sua reazione esagerata.

Pur considerando tutte le attenuanti del caso, occorre osservare che proprio la sua fama e il suo essere una grandissima campionessa le conferiscono una grandissima autorità ma anche responsabilità come modello ed esempio per tutti i suoi sostenitori soprattutto quelli più giovani. È facile pertanto comprendere come gran parte della stampa si sia espressa contro il suo comportamento, evidenziando come anche una delle tenniste più vincenti di sempre debba comunque sottostare al regolamento senza pretendere trattamenti particolari.

D’altra parte già l’organizzatore della prima Olimpiade moderna, il barone De Coubertin enunciò il motto universalmente conosciuto: “L’importante non è vincere ma partecipare”, valido nello sport e nella vita, in quanto ciò che conta è dare il massimo secondo le proprie possibilità, nel rispetto delle regole e degli altri.