di Loris Gambini
Il mio bisnonno, Pellegro Beretta nato a Camogli il 16 giugno 1917, ha risposto ad una intervista riguardante la sua vita. Ed ha raccontato alcune vicende da lui vissute durante la seconda guerra mondiale.
Poco tempo fa ho trovato il libro dove sono state raccolte alcune testimonianze (tra cui la sua) e il CD audio della sua intervista. Ascoltando la sua voce e leggendo la sua testimonianza, mi è venuta voglia di condividerla con voi.
Il suo primo lavoro è stato il militare. Dopo ventiquattro mesi lo aveva finito, ma la Germania aveva invaso la Cecoslovacchia e lo avevano mandato in batteria a Siracusa, in attesa di congedo.
Avevano trovato il modo di trattenere lui e i suoi compagni facendogli fare un corso speciale. Per convincerli a fare questo corso gli avevano detto: “se finite il corso e siete promossi, vi mandiamo in licenza illimitata.” Ma loro erano in attesa di congedo, perché avevano già finito…
Gli fecero fare questo corso, dovettero studiare l’aerofono, la radiotelegrafia e l’idrofono.
L’idrofono era un tubo a forma di “C” sulla fiancata dei caccia che serviva per individuare i sommergibili, ma per riuscire a sentirli bisognava fermarsi, perché se il caccia camminava il rumore copriva il segnale e, se il caccia doveva fermarsi, allora diventava un bersaglio sicuro. Fu imbarcato sui caccia e sui MAS.
Quando attaccavano un sommergibile, lanciavano una bomba di profondità da cinque chili e poi, dopo dieci minuti, un’altra sempre di cinque chili… se nel frattempo il sommergibile individuato usciva fuori, bene, altrimenti, secondo la Convenzione Internazionale, c’era il diritto di lanciare delle bombe di profondità, i dramogeni, persino di quaranta chili. Quando scoppiavano i dramogeni, dovevano buttarsi per terra, perché si sentivano vibrare perfino la schiena e il cuore. Il comandante era al timone e lui doveva calcolare con le apparecchiature la posizione del sommergibile e capire se era stato colpito.
Andavano anche sotto le navi nemiche a cercare di prendere carburante, sopratutto nafta.
Lo avevano mandato a Susa, avevano portato i mezzi d’assalto a Susa, a Candia. Lì c’è un’isola e c’erano due incrociatori inglesi rifugiati. I ricognitori li avevano individuati.
Lui si era dovuto buttato in mare, con le tenaglie aveva tagliato la rete messa a protezione e dietro a lui c’erano tre sommozzatori con il siluro che quando saltava, non c’era più niente da fare. Riuscirono ad attaccarlo sotto lo scafo e poi scapparono.
Li presero prigionieri a Biserta, in Tunisia. Gli americani avevano tanti mezzi, ma loro non avevamo niente.
Gli chiedevano continuamente dove avevano i carri armati. Ce n’erano due.
Questi due carri armati li avevano fatti sbarcare nel porto di Biserta che aveva il porto chiuso, e facevano uscire i due carri armati da una parte ed entrare da un’altra, per fare capire che erano molti, ma invece erano solo due!
Da prigionieri … Avranno anche avuto ragione, perché loro erano gli invasori … ma diceva sempre che gli sputi in faccia che aveva preso non se li sarebbe mai dimenticati … e non soltanto sputi, di tutto.
Avevano ragione, perché erano andati in Africa a rompergli le scatole? Si domandava…
Ricordava l’ammiraglio Biancheri, che era di Ventimiglia, una mattina, mentre erano prigionieri insieme a Biserta, arrivò una squadriglia di aerei quadrimotori americani, e l’Ammiraglio chiese al mio bisnonno Pellegro che era dalla finestra se li vedeva e quanti ce n’erano. Erano parecchi.
Cominciarono a sganciare, tremava tutto. C’erano dei fori che ci sarebbe stata dentro una casa intera.
Quando li presero prigionieri, i primi giorni, studiavano il modo per convincerli a collaborare con gli americani, ma non li hanno mai toccati.
Stare chiusi nel campo di concentramento era dura. L’acqua era scarsa. Gli davano un panino e se lo dovevano far durare.
Volevano farli aderire alle loro idee.
Avevano bisogno di tanta mano d’opera per recuperare tutto: perché dietro c’erano morti….
Lui era Sergente Maggiore ed era responsabile di quaranta prigionieri che dovevano recuperare e pulire le taniche per il carburante…
C’è stato chi avendo visto un bell’orologio posato lì per terra, lo aveva preso e BOOM! Era una bomba.
Facevano lo sminamento con le macchine, ma di mine lasciate dai tedeschi ce n’erano troppe. Lavoravano a cottimo e, quando avevano terminato il lavoro, erano liberi di andare dove volevano.
Successivamente li mandarono in Francia. Lì per procurarsi il cibo spesso andavano a caccia utilizzando le armi trovate.
Se ne accorse la Gendarmeria francese che non volendo che andassero a caccia nel loro territorio, gli diedero la caccia, li trovarono con le armi, e li portarono al Comando. Erano in cinque.
Il comandante americano intervenne per loro dicendo che avevano l’ordine di recuperare tutte le armi abbandonate, perciò non avevano fatto niente di male.
Così li lasciarono andare.
Si portavano dietro le bombe a mano perché a volte andavano anche per trote.
In quel periodo stava arrivando la crisi, i viveri cominciarono a scarseggiare.
C’era un cimitero lì vicino con le croci e le tombe piene di lumache.
Lui andò dentro con due secchi, li riempì con le lumache, ci mise il sale, così si pulirono, poi le tirò fuori e le tritò con il coltello.
Nel loro campo di prigionia, raccontava che, c’era anche Coppi…. Lui era addetto alle pulizie e anche quando lavorava andava sempre di corsa, anche con i sacchi in spalla, per mantenersi in allenamento. La guardia americana che li sorvegliava dalla torretta e che lo vedeva sempre correre così, chiedeva se era matto. Appena li liberarono sparì, non si vide più. Qualche anno dopo, quando il Giro d’Italia passò a Genova, il mio bisnonno con uno dei suoi fratelli andarono a vederlo. Si riconobbero e salutarono ricordando quando erano stati prigionieri insieme.
Il colmo di tutto fù quando cominciarono a liberarli. Erano divisi in compagnie che dovevano svolgere diversi lavori. Ce n’era per tutti.
Arrivarono molti di camion e loro furono tutti contenti perché pensavano che fossero andati a prenderli.
Partirono, dopo un po’ di tempo il mio bisnonno notò che stavano dando la schiena al sole, e che quindi non andavano in giù, ma in su. Gli altri ragazzi però non gli diedero retta, anzi gli dissero di non fare l’uccello del malaugurio.
Arrivarono in Germania, in un campo grandissimo.
Gli fecero costruire un ospedale da campo, dopo arrivarono le persone sopravvissute agli altri campi di concentramento… si ricorda che si davano la mano l’uno con l’altro. Saranno stati trecento o quattrocento.
Erano pelle e ossa e avevano gli occhi fuori dalla testa.
Per scarpe avevano pezzi di tavola legati con vecchie cinture.
Lui era l’ addetto alla cucina e doveva dar loro da mangiare: un po’ di brodo e un po’ di semolino a quei ragazzi (così li chiamava nei suoi racconti).
Non li potevano portare in Italia, perché erano troppo malridotti e allora li tenevano lì per vedere se potevano salvarne qualcuno.
Quei superstiti tentarono di ribellarsi anche a loro che gli davano da mangiare quel poco che avevano. Dicevano che non li avevano fatti morire di fame i tedeschi, ma che li facevano morire loro. Raccontava che gli davano un po’ di semolino, un po’ di verdura bollita, non potevano dar loro altro.
Ritornò a casa il ventinove settembre millenovecentoquarantasei. Lui diceva spesso: “Sì, ho passato dei brutti momenti, molto brutti! Però sono anche stato fortunato di riuscire ancora a riportare la pelle a casa.”
Ascoltare dalla voce, pur se registrata, di un mio familiare avvenimenti così brutali e dolorosi mi ha emozionato moltissimo. Emozioni di stupore, angoscia e incredulità nel sentire ancora più vere le crudeltà che per ora avevo lette solo sui banchi di scuola.
Spero che la conoscenza approfondita di questi fatti porti il mondo a non commettere più queste atrocità.